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Estremismo medico

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Non tutte le persone malate si curano nella stessa maniera.

Recentemente ho avuto modo di discutere parecchio riguardo tematiche femministe che spesso riguardavano un punto di vista piuttosto estremo sull’argomento in questione.
Sebbene sia capitato abbastanza spesso che mi ritenessi allineato ai ragionamenti fatti, un aspetto che non sono mai riuscito a condividere è proprio l’estremizzazione.
Per mia natura sono una persona estremamente moderata, forse fin troppo, e posso capire che, per chi ha davvero a cuore una questione al punto di farne una bandiera personale, accettare un compromesso sembri paragonabile ad aver fallito, ad aver tradito i propri principi. Ma non posso fare a meno di pensare che questa linea di pensiero sia fallace e controproducente.

Il ragionamento che segue riguarda più da vicino le tematiche femministe, ma penso sia abbastanza generale da poter essere applicato anche in ambiti molto diversi.

Penso bisogni prima di tutto domandarsi: qual è il mio obiettivo? Perché porto avanti questa battaglia? La risposta a questa domanda è fondamentale per quanto segue, quindi daremo per scontato che la risposta sia qualcosa di simile a “Per far capire agli altri che la scelta giusta da fare / il modo corretto per comportarsi sia questo e non quest’altro.”
Ma ecco che l’approccio estremista diventa un ostacolo alla realizzazione proprio di questo obiettivo primario. Il problema alla base è che per una persona con una visione estremista, o sei a favore o sei contro. Non ci sono vie di mezzo, casi particolari, giustificazioni, eccezioni o zone grigie.
Già quest’ultima frase ai miei occhi dimostra quanto possa essere fuorviante un approccio del genere. La realtà è piena di casi particolari e zone grigie. Il contesto è in grado di cambiare radicalmente il significato di qualcosa. Esistono delle situazioni eccezionali che per definizione non sono predicibili.
Un metodo per giungere a delle conclusioni sulla realtà che ci circonda che in partenza non riesce a modellare adeguatamente la realtà in cui viene applicato è già fallace.

Per rendere più chiaro il concetto e proporre un’alternativa, paragonerei le intenzioni degli attivisti per una causa generica a quelle di un dottore. Dal loro punto di vista, il paziente (persone con convinzioni diverse) sono malate e vanno curate (convinte delle idee dell’attivista).
La prima considerazione è che non tutte le malattie sono uguali. Ce ne sono di più e meno gravi. I sintomi posso essere molto diversi, e soprattutto, la cura deve essere commisurata alla patologia che si sta affrontando.
Nessun medico si sognerebbe mai di trattare una malattia generica con metodi altrettanto generici senza prima capire con precisione il tipo di patologia e paziente che ha di fronte. Dubito fortemente che porre tutte le persone in due categorie così ampie come malato - non malato ed utilizzare solo questa suddivisione per stabilire il trattamento (o il non trattamento) produrrebbe un risultato ottimale.

La similitudine fra la cura di un paziente e delle discussioni in ambito sociale e morale si estende anche all’aspetto umano del dibattito.
Per quanto ci piaccia considerarci come esseri maturi e razionali, la realtà dei fatti ci dimostra che spesso non è così.
Anche un medico potrebbe scontrarsi contro il pregiudizio, la pigrizia o la comunissima paura del cambiamento che fanno parte, sebbene in misura anche molto diversa, di ciascuno di noi. Sapendo però di star agendo nell’interesse del paziente, se la gravità della situazione lo permette, proverà ad indorare la pillola e ad essere quanto più accomodante possibile.
Ovviamente è anche vero che, se il paziente dovesse continuare a non cooperare e la situazione iniziasse a diventare particolarmente grave, si avrebbe la necessità di ricorrere a misure più drastiche e meno diplomatiche (cambiamento climatico anyone?).

Riproporre un approccio simile anche nell’attivismo ritengo sia utile per massimizzare il numero di persone che potrebbero entrare a contatto con certe ideologie, magari rese più invitanti da una comunità attivista più comprensiva e disposta ad accettare anche qualcuno che, pur non abbracciando al cento per cento la battaglia, presti il suo assenso, più o meno silenzioso, alla tematica. Bollare chiunque non approvi a pieno tutti gli aspetti di una battaglia, specie quelle più complesse e sfaccettate, come un nemico, ha come risultato quello di reclutare solo altri estremisti. Al contrario, tutti gli altri vengono ostracizzati, con il rischio di far nascere in loro una tendenza di opposizione, che può sfociare in estremismo in senso opposto, ingrandito e giustificato, agli occhi di chi ne è coinvolto, dalla percepita pericolosità degli attivisti.

La conclusione è che nessuno ha guadagnato nulla dallo scambio di idee diverse, ma al contrario, ogni successiva interazione dovrà scontrarsi con il muro spinato di idee sempre più estremiste che ognuna delle due fazioni ergerà per tenere dentro i suoi e respingere tutti gli altri.

Mi sembra anche doveroso precisare che esiste anche un limite di compromesso oltre il quale l’attivismo stesso cessa di esistere. Con questa discussione non intendo quindi condannare ogni forma di attivismo, ma piuttosto provate ragionare in termini utiliraristici su qual è lo scopo dell’attivismo e come meglio raggiungerlo.